Lamine viene dal Mali e oggi vive a Padova nel nostro centro di seconda accoglienza in via Minio. Con l’aiuto di Giovanna, una volontaria dell’associazione che lo incontra ogni settimana per le lezioni di italiano, ha deciso di raccontare il viaggio che lo ha portato in Italia nel 2016. Questo, per molte persone migranti, è il capitolo più difficile della propria storia. Ciò nonostante, Lamine ha deciso di ripercorrere tutte le tappe del suo viaggio, di ricordare le persone che ha incontrato e ciò che ha vissuto sulla propria pelle e, infine, di scrivere (proprio come dice nell’introduzione al testo) “per la mia famiglia, per mia moglie, per mio figlio, per i miei amici e per me“.
IL MIO VIAGGIO
“Sono partito il 15 febbraio 2015. Dal Mali, da Segou. Sono partito da solo, ma nel bus c’erano già 50 – 60 persone. Abbiamo viaggiato tre giorni per arrivare a Kidal che è l’ultima città grande del Mali prima dell’Algeria. A Kidal ci siamo fermati un giorno.
Dopo, siamo partiti per Timiaouine, due giorni di strada. Non ho mangiato per due giorni. Solo biscotti e acqua. Ci hanno rinchiusi in una casa dove siamo rimasti due giorni. Eravamo in 100. I trafficanti hanno chiesto soldi. Ho chiamato un mio amico del Mali che vive in Algeria e mi ha mandato 10.000 dinari (circa 65 euro). Ho pagato e hanno aperto la porta, ho preso ancora la macchina e sono arrivato a Tamanrasset.
Lì mi hanno preso l’orologio, il telefono Blackberry e le scarpe. Le scarpe buone, nuove. Nello zaino avevo un altro paio di scarpe e un cellulare vecchio solo per chiamare. Poi ho comprato scarpe in Libia. Da Segou a Tamanrasset ho viaggiato con camion, bus, pick-up. 1600 km. A Tamanrasset ho lavorato qualche settimana: caricare/scaricare dal camion sacchi di cemento da 50 kg. Ogni giorno 8 ore. Prendevo 1500 dinari (10 euro). Non conoscevo il cemento, non avevo guanti. La pelle delle mani, delle braccia, dei piedi si è tutta screpolata.
Dormivo in un cortile, su un materasso per terra, con altri 50 circa. Ho pagato 50 dinari per due settimane. Qualcuno vendeva da mangiare: riso, panini, latte Dopo sono stato a Oran dove ho trovato due miei fratelli: mio cugino K. e M. figlio di vicini di casa. Hanno preso il mio zaino, mi hanno portato a casa loro, hanno fatto festa, abbiamo mangiato molto: pollo, patate, coca-cola. Mi hanno aiutato a trovare lavoro e sono rimasto a Oran 6 – 7 mesi.
È una città bellissima perché le case sono distanti tra loro, le strade sono larghe e c’è il mare.
Ma sono partito di nuovo perché in Algeria non potevo mettere i soldi banca per mandarli a casa. Si tengono sempre nelle tasche. Anche M. e K. sono andati via, uno in Francia e uno in Italia.
Dopo una giornata e una notte di viaggio sono arrivato a Ghardaia e dopo poche ore sono ripartito per Ouargla. Da qui sono andato a Ghadames con pick-up e a piedi. Questa volta c’era anche una donna, del Camerun. A Ghadames sono stato un giorno e una notte in una casa. Siamo ripartiti alle cinque di mattina, abbiamo viaggiato un giorno. Ci siamo fermati una notte e siamo arrivati a Tripoli.
Siamo entrati a Tripoli alle 10.00 di mattina. Ci hanno scaricato per strada. L’autista ha avvisato qualcuno di venire a prenderci e ci hanno portati in un foyer dove sono rimasto una settimana.
Tutti abbiamo pagato. Una mattina è arrivato un trafficante, ha gridato “Lamine”, il mio nome, e mi ha caricato su un’auto. Volevo prendere la mia roba, ma mi ha detto che non c’era tempo. Così ho lasciato il mio zaino e sono andato via con i pantaloni, una giacchetta e un cartoncino con i numeri di telefono dei miei amici, di mia moglie.

La notte di martedì o giovedì (non mi ricordo) mi hanno portato sulla spiaggia alle 23.00. Alle 3.00 uno alla volta (eravamo circa 130) siamo saliti sul barcone. Molti avevano paura, molti piangevano. Io non avevo paura ho pregato tanto. Era la prima volta che entravo nel mare, sentivo “brr… brr… brr…” il rumore del mare, e avevo paura. Un gambiano era capitano, diceva “Tranquilli, andiamo in Italia”. Era bravo, conosceva molto il suo lavoro. Nella barca c’erano acqua da bere e biscotti. Eravamo tutti uomini, conoscevo solo Abubakar Ngai. Adesso è in Francia. C’era anche Babou, poi siamo stati insieme in Spagna. Adesso è in Calabria e ci sentiamo sempre.
Dopo sei o sette ore di viaggio il mare è diventato troppo forte, molti si alzavano in piedi per paura e il capitano gridava “Seduti o torniamo in Libia!”. Ho visto un gabbiano bianco e dopo una nave grande spagnola. Il comandante ha chiesto se qualcuno parlava spagnolo.
Ci hanno buttato gilet galleggianti e con un motoscafo ci hanno portato 10-15 alla volta vicino alla nave. Abbiamo salito una scala per entrare. Ci hanno dato riso e acqua. Abbiamo fatto la doccia. Chi aveva le scarpe troppo bagnate le ha buttate in una grande scatola e ce ne hanno date un altro paio. Chiedevano il numero di piedi, io ho detto 45. Ci hanno dato anche vestiti. Ci hanno chiesto i nomi.
Alla sera tardi ci hanno trasferito su una nave italiana. Ci hanno dato biscotti, acqua. Di mattina siamo arrivati in Italia. C’era tanta gente: giornalisti, cameraman, polizia. Siamo usciti uno alla volta. Ho detto in bambara: “Allah è grande!”. Era il 25 maggio 2016.
Durante il viaggio pensavo che mia moglie, mia sorella, i miei amici si preoccupavano per me. Non sapevano se ero vivo o morto. Per cinque mesi in Algeria non ho telefonato a nessuno. Mi dicevano “Dove sei? Torna a casa!” Ma io avevo deciso di fare qualcosa, non volevo tornare. Volevo guadagnare e mandare soldi.
Io non ho avuto problemi.
Molti sono morti.“

Oggi Lamine vive a Padova, lavora in una ditta ed è accolto nel nostro storico centro di seconda accoglienza in via Minio, zona Arcella. Questo centro è molto più di un dormitorio: alle persone accolte viene offerta l’opportunità di migliorare con l’italiano, di essere accompagnati nella ricerca lavoro, di partecipare a momenti di condivisione e svago grazie al prezioso supporto di volontari e volontarie. Proprio come Lamine che, oltre ad incontrare Giovanna ogni settimana per migliorare con l’italiano, corre e fa sport quasi tutte le mattine insieme ai volontari Davide e Filippo.